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20 Aprile 2009 10:19

Morire, e lasciare traccia

811 visualizzazioni - 0 commenti

di Monica Lanfranco

La notizia è nota: Roberta Tatafiore, giornalista, femminista, autrice di importanti testi sul mercato del sesso e attivista per i diritti dei e delle sex workers si è uccisa lo scorso mercoledì a Roma, in un albergo poco distante dalla sua casa. Una morte decisa da mesi, accuratamente preparata affinchè le amicizie ne fossero all’oscuro, anche per evitare comprensibili tentativi di dissuasione. Una morte che lei stessa definisce "una scelta a lungo riflettuta, preparata, accompagnata negli ultimi tre mesi dalla stesura di un diario, impegno che ha dato luce a questi miei ultimi giorni". Diario spedito da Roberta poco prima di uccidersi ad alcuni amici e amiche, che era stato anticipato da una serie di riflessioni apparse su Il Foglio, dove lavorava ultimamente. Questo mio non vuole essere un necrologio, considerando che altri e altre in questi giorni ne hanno scritto di intensi e pieni di ricordi un po’ su tutta la stampa. L'ho conosciuta quando ero troppo giovane per poter intrecciare un rapporto che non fosse, da parte mia, solo di rispetto e ammirazione; all’epoca, la giovane ventenne che ero guardava alle ‘mitiche’ colleghe di Noidonne, tra cui una fiammeggiante Tatafiore trentacinquenne, come inarrivabili esempi ai quali ispirarsi, per realizzare il sogno di fare questo mestiere dandogli una forte connotazione politica e femminista. Per come Tatafiore era apocrifa e controcorrente (non è mai stato semplice né a sinistra, né nel femminismo, esprimere pensieri dissacranti e ostici, come i suoi, specialmente sulla sessualità e sul mercato sessuale) non mi stupì più di tanto la sua scelta, qualche anno fa, di intrecciare relazioni nei giornali e negli ambienti della destra. Anche questo passaggio così difficile da comprendere, e per certi aspetti impensabile, mi fece molto riflettere, come in precedenza nel caso di Tina Lagostena Bassi, su molti aspetti dell’inospitalità dei nostri luoghi collettivi a sinistra e del femminismo, siano essi giornali, gruppi, associazioni, partiti. Con questo non voglio dire che se i nostri luoghi fossero migliori e più accoglienti nessuna ne se andrebbe, ma di certo alcuni conflitti, pur necessari, forse non avrebbero come esito cesure e perdita di relazioni, di risorse, di scambio. Se si pensa al suicidio è automatico associarlo alla sconfitta, all’abbandono, alla perdita, al dolore e alla resa, spesso connesse con la malattia, quella fisica e soprattutto quella psicologica. Gli esempi sono tanti: la depressione di Virginia Woolf, la fragilità psicotica di Sylvia Plath, la dolente visionarietà profetica di Karin Boye, la melanconia di Marina Cvetaeva. Eppure Roberta Tatafiore non era malata, aveva fatto scelte libere e consapevoli, a sessantesei anni era nel pieno dell’attività, aveva un consolidato successo e autorevolezza pubblica. Quindi, ecco la domanda difficile: perché uccidersi? Non c’è affronto e dittatura più inesorabile della morte, perché con essa si chiude, almeno qui sulla terra e tra gli umani, la possibilità di dialogo reale, carnale, con tutti i cinque sensi che possono aiutare a fare chiarezza e ridurre le distanze, che pure restano, e possono essere mitigate nel dialogo. Eppure, anche nella modalità scelta da questa donna dalla mente affilata e in constante ricerca di domande con le quali scandagliare la realtà mi pare di scorgere una offerta, (certo del tutto unilaterale), di chiarezza, molto in sintonia a quella che in vita ha proposto. Sulla prostituzione, ad esempio, ha sempre detto chiaro e tondo che si trattava di ‘atti capitalistici tra adulti consenzienti’, un bel pugno nello stomaco sia al moralismo cattolico ma anche a quello che lei definiva ‘femminismo collettivista’. Nel suo nuovo mondo a destra non era stata meno critica: aveva bollato di ‘statalismo chiesastico’ chi proponeva la pessima legge a seguito del caso Englaro. La sua scelta di libera morte è un dono doloroso ma prezioso, proprio in tempi così spietati, ottusi e pericolosi sulle scelte del fine vita. Quando non riesco a capire, o ad accettare, i passaggi duri che il percorso della vita mi pone dinanzi vado a cercare tra le pagine di un libro, Distacchi di Judith Viorst. Nel capitolo sulla morte, il distacco più temuto, leggo che il filosofo Walter Kaufmann sostiene che “se ultimiamo, di fronte alla morte, nella gara con la morte, un progetto che sia veramente e unicamente nostro, il nostro cuore potrebbe morire più volentieri perché, in un certo senso, abbiamo trionfato su di essa”. La Viorst ragiona a partire da questa suggestione raccontando il sollievo di una figlia, e la gratitudine verso suo padre che, in procinto di morire, si mise a fare ordine trascorrendo gli ultimi mesi salutando, perdonando, sistemando le cose, lasciando in questo modo a lei un grande regalo: se è vero che la morte ci separa da chi amiamo, è anche vero che il percorso verso la morte, quando è possibile, può essere vissuto e praticato pienamente come trionfo dell’autodeterminazione e della vita. La romanziera Muriel Spark scrive, nel suo Memento Mori: ”la morte dovrebbe far parte delle aspettative di vita. Senza un senso della morte sempre presente la vita è insipida. Potresti, alla stessa stregua, vivere solo di chiare d’uovo”. Giorgio Gaber cantava di non aver conosciuto mai qualcuno che buttasse lì qualcosa, e andasse via. Ora c’è: spero tanto che il diario di Roberta, che solo per il fatto di essere stato concepito e scritto considero un eccezionale testimonianza di laicità, chiarezza e comunicazione condivisa, sia reso pubblico. Perché abbiamo, noi che restiamo, un immenso bisogno di parole sulla possibilità di scegliere, sulla libertà, sulla morte, e quindi sulla vita.

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