397 utenti


Libri.itBELLA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINILILLI E MOSTROPUPAZZOLO 2CIOPILOPI MARZO 2024 – SULLA MORTE E SULLA VITAIL CIMITERO DELLE PAROLE DOLCIPAPÀ HA PERSO LA TESTA
Emergency

Fai un link ad Arcoiris Tv

Fai un link ad Arcoiris Tv

Utilizza uno dei nostri banner!












Lettere ad Arcoiris

inviaci le tue opinioni, riflessioni, segnalazioni

Per inviare un lettera ad ArcoirisTV, riempi i campi sottostanti e clicca su "Invia". Se è la prima volta che scrivi, riceverai una email con un link ad una pagina che dovrai visitare per far sì che le tue lettere vengano sempre pubblicate automaticamente.

Informativa privacy

L’invio della "Lettera ad Arcoiris" richiede l’inserimento del valido indirizzo email del utente. Questo indirizzo viene conservato da ArcoirisTV, non viene reso pubblico, non viene usato per altri scopi e non viene comunicato ai terzi senza il preventivo consenso del utente.

maggiori info: Privacy policy

18 Gennaio 2008 16:02

Fiction e realtà ne "Il capo dei capi" SOSPETTE OMISSIONI ED EVIDENTI FALSIFICAZIONI

2241 visualizzazioni - 0 commenti

di ENZO GUIDOTTO

OSSERMATORIO VENETO SUL FENOMENO MAFIOSO Il Presidente "Il capo dei capi" tra fiction e realtà SOSPETTE OMISSIONI ed EVIDENTI FALSIFICAZIONI * * * * * * * * * La fiction? Dal punto di vista tecnico un buon prodotto piaciuto a tanti, ma a Michele Placido, che nel settore ha maturato un’esperienza singolare, è sembrata «un film di Rosi fatto da falsari napoletani perché né Rai né Mediaset possono permettere che si vada in profondità». Da un canto, infatti, è mancato qualsiasi riferimento ai referenti politici dei Corleonesi agli albòri della "Seconda Repubblica" e non c’è stata alcuna allusione al "sistema eversivo" che, secondo consistenti ipotesi, avrebbe operato dietro le quinte in occasione delle stragi in Sicilia e degli attentati nel Centronord; dall’altro, l’immaginazione è sfociata in autentica falsificazione di persone e fatti con Massimo Venturiello nei panni del commissario Angelo Mangano che cattura Luciano Liggio prima a Corleone e poi a Milano: in realtà i due arresti li fecero, a distanza di dieci anni, un ufficiale dei Carabinieri, Ignazio Milillo, ed uno della Guardia di Finanza, Giovanni Vissicchio. Eppure, il produttore Pietro Valsecchi ed il regista Enzo Monteleone avevano presentato "Il capo dei capi" come «una storia vera» basata su «fatti di cronaca, documenti ed atti processuali». * * * * * «"Il capo dei capi" ? Is not a fiction, it’s a real story» ha dichiarato il produttore Pietro Valsecchi all’ "Herald Tribune": non è una fiction, è una storia vera. Basata su cosa? «Su fatti di cronaca, documenti ed atti processuali» aveva già avuto modo di precisare il regista Enzo Monteleone. Si deve a questo il suo successo? «L’Italia è sempre stata affascinata dalla Mafia per la sua personificazione del male» è stato il parere, riportato sullo stesso quotidiano, di Attilio Bolzoni, autore dell’omonimo libro scritto con Giuseppe D’Avanzo. Ma le cose stanno proprio così? «Sembra un film di Rosi fatto da falsari napoletani» In realtà, i giudizi sulla realizzazione di "Taodue" sono stati piuttosto controversi. Si è trattato di un «buon prodotto» ha detto in un’intervista a "La Repubblica" Michele Placido, che nel settore ha ormai maturato una lunga e lusinghiera esperienza. «Però – ha obiettato - sembra un film di Rosi fatto da falsari napoletani, perché né Rai né Mediaset possono permettere che si vada in profondità». Sul tema è forse migliore il cinema? «Una volta la tv si arrangiava con i mezzi e il cinema aveva più soldi. Oggi è il contrario. Siamo in una stagione d’oro: la mafia viene usata come fonte di sicuro successo. Prima la tv era più casereccia, con "La piovra" si rompe qualcosa: comincia una stagione televisiva che punta sulla qualità. La prima Piovra porta con sé una forte carica di denuncia», ma «dalla terza serie in poi viene addomesticata». Come mai? «I politici intervengono per impedire che si parli di connessioni tra politica e mafia». Ed è assai probabile che il pressing si sia verificato anche recentemente e che continuerà a verificarsi anche in futuro. «Paolo Sorrentino che fa un film su Andreotti – ha osservato l’attore-regista - andrà incontro a qualche rischio perché rivelerà cose che un prodotto televisivo non avrà mai il coraggio di rivelare perché sarebbe censurato. Ecco la differenza. Forse c'è una strategia politico-culturale dei vertici televisivi apparentemente coraggiosa ma che in realtà resta in superficie. Il prodotto tv non avrà mai la funzione critica che avevano film come "Salvatore Giuliano" o "Cadaveri eccellenti"». Insomma, «la tv non è libera, fa buoni film ma addomesticati». Errori ed omissioni Anche "Il capo dei capi" ha risentito di certi condizionamenti? A "botta fredda", le riflessioni sulle sei puntate hanno portato tanti osservatori alla conclusione che gli attori, bravissimi, sono stati … "esecutori materiali" di "mandanti palesi" che nella preparazione del copione non hanno potuto o voluto utilizzare la documentazione, assai conosciuta, su alcuni contesti e situazioni di rilevante importanza che nella fiction sono risultati malamente falsificati o totalmente ignorati: tra i primi, più antichi, gli arresti, nel 1964 e nel 1974, di Luciano Liggio, il vero "capo dei capi", sui quali sarà opportuno soffermarsi adeguatamente essendo ormai caduti nel dimenticatoio della memoria collettiva; tra i secondi, più recenti, la mancata rappresentazione di ciò che c’è stato dietro le quinte, al di là e, soprattutto, al di sopra della bramosia di ricchezza dei boss nell’imminenza di grandi delitti, inaudite stragi e "significativi" attentati. La fiction è fiction ? «La fiction è fiction» hanno sostenuto in tanti. E’ vero. Ma è altrettanto vero che ci sono fiction e fiction: ci sono cioè quelle in cui prevale la verità, integrate a volte con personaggi, scene ed episodi di fantasia per rendere più suggestiva la trama e ci sono quelle in cui prevale invece la fantasia che, per dare un po’ di realismo alla stessa, vengono arricchite da fatti e situazioni che rispondono a verità. "Il capo dei capi" rientra nella prima categoria relativamente alla barbara escalation dei Corleonesi e ai loro rapporti con "vecchi" politici della "Prima Repubblica"; degenera malamente nella seconda quando da un canto si assiste ad avvenimenti del tutto inventati o talmente alterati da suscitare dure reazioni con probabili riflessi giudiziari, mentre dall’altro ci si accorge che è assente una sia pur vaga allusione ai rapporti dei boss con personaggi "nuovi" che, già affermati nel mondo economico, entrano nella competizione politica nazionale nei primi anni Novanta. Stando alle trasmissioni lanciate da "Taodue", infatti, dagli anni Cinquanta in poi, i rapporti con i politici ed il conseguente pilotaggio di voti nei congressi di partito e nelle competizioni elettorali da parte di Cosa Nostra si sarebbero esauriti con la fine della Democrazia Cristiana, rappresentata da Vito Ciancimino e dai cugini Nino e Ignazio Salvo legati da un patto di ferro con Salvo Lima, proconsole siciliano di Giulio Andreotti, del quale è stata peraltro "dimenticata" la partecipazione ai vertici con i boss fino al 1980. E il feeling con socialisti e radicali nella seconda metà degli anni Ottanta? Nemmeno a parlarne. Come mai Claudio Fava …? Interrogativo d’obbligo: siamo proprio sicuri che Claudio Fava che ha sempre detto e scritto tanto su certe cose abbia partecipato davvero alla preparazione della sceneggiatura della fiction? Il fatto è – ha osservato giustamente Marco Travaglio – che in televisione «si racconta la lotta fra Stato e Antistato come in un film western: un lungo combattimento tra due eserciti contrapposti, ciascuno con i suoi caduti. Alla fine poliziotti e giudici da una parte, mafiosi dall’altra, appaiono come eroi, positivi o negativi, ma comunque eroi. Come i cow-boy e gli indiani. I buoni troppo buoni e i cattivi troppo cattivi rischiano di polarizzare l’attenzione, facendo perdere di vista il fondale su cui si muovono: un fondale complesso e tridimensionale, come tridimensionali sono lo Stato e l’Antistato. Che, nella realtà, non sono mondi nettamente separati, ma mescolati e intrecciati in mille complicità, opacità, zone grigie sul terreno del potere. Nelle ultime fiction, ma non nella vecchia e gloriosa "Piovra", le liaisons fra la mafia e chi dovrebbe combatterla – politici, imprenditori, forse dell’ordine, qualche giudice – non esistono. O non si vedono. O appaiono sfuocate». "Buchi neri" inesplorati Nella citata intervista al quotidiano in lingua inglese diffuso in più di centottanta paesi, Pietro Valsecchi ha però insistito nel sostenere che "Il capo dei capi" è «una narrazione piena, con tutte le sue implicazioni» perchè «parla di cinquant’anni di storia italiana», fa «nomi e cognomi» e «sbatte la mafia in faccia» agli italiani che «non leggono i giornali» e si limitano a dare «semplicemente uno sguardo ai titoli» : gli avvenimenti che ruotano attorno a Totò Riina – ha precisato - hanno quindi consentito di far capire come l’evoluzione di Cosa Nostra si sia verificata «grazie alle collusioni di forze politiche ed economiche a vari livelli della società italiana». Invece è proprio su questi due versanti - quello economico e quello politico - che tanti "buchi neri" sono rimasti inesplorati: è mancato, ad esempio, qualsiasi riferimento ai flussi di denaro che ai "bei tempi" boss - sia vincenti che perdenti – imboscavano, a Milano, a seconda dei casi, nella Banca Privata Finanziaria di Michele Sindona, nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, nella Banca Rasini o in certe società finanziarie ed immobiliari di Via Chiaravalle; non c’è stata alcuna allusione a quel "sistema eversivo" che secondo consistenti ipotesi avrebbe dato un contributo alle stragi del 1992 attraverso i cosiddetti "mandanti occulti"; al ruolo che hanno avuto nelle stesse oscuri agenti dei servizi; alle ambiguità di Bruno Contrada, alto funzionario del Sisde condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. E’ ipotizzabile che ci sia stata – viene da chiedersi – una certa sintonia tra questa "disattenzione" e la recente richiesta di grazia che a tanti è apparsa una specie di tentativo escogitato e suggerito da ambienti "insospettabili" per gratificare il suo silenzio su tante verità? E’ solo un caso che l’avvocato dell’ex 007, Giuseppe Lipera, sia stato uno dei fondatori di "Sicilia Libera" a Catania? Chi vivrà vedrà. Fonti attendibili sostengono però che da certi atti risulterebbe che un suo "precedente" difensore, uomo di loggia, era stato al corrente della presenza, nel Palermitano, di Michele Sindona all’epoca in cui furono uccisi uno dopo l’altro Giorgio Ambrosoli, Boris Giuliano, Cesare Terranova e Lenin Mancuso. Il 6 gennaio dell’anno dopo toccò a Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia. Ma nella sceneggiatura della fiction non c’era nulla di tutto questo: per gli autori, i Corleonesi avrebbero agito da soli. Un assente eccellente : Marcello Dell’Utri Altra "assenza eccellente", quella di Marcello Dell’Utri. Eppure nella sentenza che lo ha condannato in primo grado per lo stesso reato, si legge che ha «voluto mantenere vivo per circa trent’anni il suo rapporto con l’organizzazione mafiosa» fornendo «consapevole contributo a Cosa Nostra, reiteratamente prestato con diverse modalità, a seconda delle esigenze del momento»; rapporto che è rimasto immutato «nonostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso e pur avendo, a motivo delle sue condizioni personali, sociali, culturali ed economiche, tutte le possibilità concrete per distaccarsene e per rifiutare ogni qualsivoglia richiesta da parte dei soggetti intranei o vicini a Cosa Nostra». Possibile che nella lettura di cronache giornalistiche, documenti ed atti giudiziari gli autori della fiction non si siano accorti di questo ruolo svolto dal braccio destro di Silvio Berlusconi? In quale pianeta vivevano qualche anno fa, quando sono state note le motivazioni di quel verdetto? Quali, dunque, i motivi della colossale lacuna? La risposta potrebbe trovarsi nella parte della sentenza in cui si fa riferimento ai settori nei quali il senatore che ama paragonarsi a Socrate collaborava con i boss: il settore economico prima e quello politico poi, gli stessi ai quali faceva esplicito riferimento Pietro Valsecchi. «Si connota negativamente la disponibilità» di Marcello Dell’Utri «verso l’organizzazione mafiosa attinente al campo della politica - hanno rilevato i giudici - in un periodo storico in cui "cosa nostra" aveva dimostrato la sua efferatezza criminale attraverso la commissione di stragi gravissime, espressioni di un disegno eversivo contro lo Stato, e, inoltre, quando la sua figura di uomo pubblico e le responsabilità connesse agli incarichi istituzionali assunti, avrebbero dovuto imporgli ancora maggiore accortezza e rigore morale, inducendolo ad evitare ogni contaminazione con quell’ambiente mafioso le cui dinamiche egli conosceva assai bene per tutta la storia pregressa legata all’esercizio delle sue attività manageriali di alto livello». Stragi e politica Una disponibilità che in concreto – secondo quanto emerso nel processo – si era manifestata quando Cosa Nostra elaborava la «politica delle alleanze» imperniata sulla «possibilità di altri terminali verso i quali canalizzare il voto mafioso per tutelare gli interessi dell’organizzazione». In questo contesto, Dell’Utri aveva dedicato attenzione alla creazione di "Sicilia Libera", il movimento indipendentista voluto da Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i fratelli Graviano, componenti dell’ala stragista, in contatto con logge massoniche coperte. Poi però preferì promuovere la formazione di Forza Italia che segnò la discesa in campo di Sivio Berlusconi. «Guarda caso – aveva detto in proposito il pm Antonio Ingroia durante la requisitoria – mentre Cosa Nostra cerca nuovi referenti, Dell’Utri imbraccia una carriera per lui inedita: la politica. Si interessa un po’ a "Sicilia Libera", poi si convince che non funzionerà e commissiona un nuovo partito. In teoria Cosa Nostra avrebbe dovuto scegliere Bagarella, Brusca, i Graviano a occhi chiusi. Invece li scarica e sceglie Dell’Utri, dopo una consultazione tra i boss: una sorta di "primarie" interne». E voti controllati dai boss confluiscono in Forza Italia. Altri "perché?" «Perché nella fiction – ha osservato Marco Travaglio - non si fa notare che, appena nata Forza Italia, Cosa Nostra smise di attaccare lo Stato dopo aver messo a ferro e fuoco Milano, Firenze, Roma? Perché non si spiega cosa intendeva Riina dicendo "facciamo la guerra per fare la pace"» dal momento in cui «la pax mafiosa dura tutt’oggi e sappiamo a che prezzo? Perché non si fa nemmeno un cenno alla trattativa che, secondo diversi mafiosi pentiti e una sentenza del Tribunale di Palermo, si svolse sullo scorcio del ’93 fra Dell’Utri e Provenzano, tramite l’ex "stalliere" Mangano che faceva la spola tra Palermo e gli uffici di don Marcello a Publitalia dove stava nascendo Forza Italia?». La spiegazione di Marco Travaglio collima con quella di Michele Placido. «Una fiction così completa – precisa infatti il giornalista - difficilmente andrebbe in onda su Canale 5: sarebbe come parlare di stalle in casa dello stalliere. Ma c’è pure il "servizio pubblico", almeno così dicono. Se mostrasse il lato oscuro del potere che rende indistinguibile Stato e Antistato, nessuna fiction farebbe danni ai bambini, agli adulti, ai giudici. Tutti saprebbero qual è lo sfondo su cui si muovono i personaggi. Invece manca il nesso tra i fatti che, anche quando fanno capolino, restano isolati, avulsi dal contesto. E nessuno sa o ricorda più nulla». Tenuto conto delle tante verità occultate o offuscate, alle quali vanno aggiunte quelle riguardanti le contraddizioni sulla mancata perquisizione della casa di Totò Riina «una bella fiction dal titolo "Il covo dei covi", o "Lo stalliere degli stallieri", farebbe bene a tutti. Anche a certi giudici e giornalisti, smemorati o disinformati». «Ha ragione Mastella a parlare di spettacolo "diseducativo"» aveva sostenuto il giornalista dopo la seconda puntata. «Ma la soluzione non è quella da lui proposta: cioè sospendere la fiction su Riina». Alle fiction, piuttosto, «bisognerebbe aggiungere, non togliere. Perché ne "Il capo dei capi" non si mostrano gli incontri consacrati da fior di sentenze, fra i boss e Andreotti, Berlusconi, Dell’Utri?». «Il "Capo dei capi" di Cologno Monzese» La mancata risposta ai tanti perché da parte di quanti, in un modo o nell’altro, hanno contribuito a realizzare la fiction, fa venire in mente la famosa frase di Giulio Andreotti: «A pensar male degli altri si fa peccato, ma quasi sempre si indovina». Il principio – che, ovviamente, vale anche nei suoi confronti – nel nostro caso sembra trovare una specie di conferma in un articolo apparso su "Libero" del 27 novembre a firma di Alessandra Manzani: «Gioisce sì, non nasconde la propria soddisfazione, ma senza strombazzare i risultati con dichiarazioni pompose e comunicati stampa festaioli il "Capo dei capi" di Cologno Monzese». Chi è questo personaggio al quale la giornalista osa affibbiare il "titolo" riservato a "Zù Totò?"? Nessun mistero: «il vicepresidente di Mediaset, dottor Piersilvio Berlusconi» del fu presidente del Consiglio cavalier Silvio, a sua volta capo di Forza Italia. «In televisione la qualità è l’attenzione ai dettagli, la cura del prodotto, la capacità di innovare programmi già affermati» ha dichiarato Piersilvio. «Non esiste la qualità assoluta: ogni cosa può piacere o non piacere, dipende dai gusti personali». Di conseguenza, secondo lui, non è un buongustaio chi in tema di mafia non apprezza le fiction con gravi errori ed omissioni. «In questa stagione – ha aggiunto - Mediaset dimostra che questa capacità fa parte del suo Dna». Una precisazione, quest’ultima, che fa capire bene la principale ragione di certe scelte. "Buon sangue non mente" , dunque: quel che più importa alla "Berlusconi dinasty" non è il culto della verità ma l’ incessante ricerca – come hanno dimostrato inchieste e processi – del guadagno a tutti i costi accompagnata dalla pretesa di non rendere conto a nessuno. Non a caso il 29 novembre, lo stesso giorno in cui è stata trasmessa l’ultima puntata della serie, sul sito di TGCOM si legge la seguente notizia: «Accordo in casa Mediaset per una joint-venture in cui confluiranno Medusa Film e Taodue - fondata da Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt - che ha iniziato a produrre fiction alla fine degli anni '90 e conta tra le sue produzioni "La uno bianca", "Ultimo", "Distretto di polizia", "Paolo Borsellino", "Karol, un uomo diventato Papa", "Nassirya", "Maria Montessori", nonchè il discussimo (sic!, nda) "Il capo dei capi". Il binomio Medusa Film e Taodue garantirà a Mediaset una vasta copertura sia per quanto riguarda l'area cinematografica che quella della fiction televisiva. Medusa Film, infatti, è ai vertici della produzione e della distribuzione di film italiani ed internazionali, nella gestione di sale cinematografiche e nell'home entertainment». "Business is business", dunque: il principio dominante della filosofia del "capo dei capi". «In fondo – ha detto una volta Mario Puzo, che di certe cose se ne intende – la mafia è un business come un altro: con la differenza che ogni tanto spara». Il poliziotto immaginario e i "pivelli" Fin qui le possibili motivazioni delle gravi omissioni. E quelle riguardanti la falsificazione di fatti che – in realtà o all’apparenza – non hanno avuto a che fare con la politica? Qualche esempio rende chiara l’idea. Uno è quello del rapimento del figlio del poliziotto Biagio Schirò per impedire che il Tribunale per le misure di prevenzione assegnasse a Ninetta Bagarella – che nella fiction dà l’input che porta al sequestro - il soggiorno obbligato in una località lontana dalla Sicilia. L’interessata si è già rivolta agli avvocati. Non avrebbe potuto fare la stessa cosa se avessimo visto la raccolta di firme per evitare quel provvedimento promossa da monsignor Emanuele Catarinicchia, all’epoca sacerdote, diventato poi, malgrado tutto, vescovo, prima di Cefalù e poi di Mazara del Vallo. Non meno inopportuno il ruolo conferito a Daniele Liotti del siciliano che, rendendosi conto degli errori commessi da ragazzo, cambia strada, lotta in prima linea contro la mafia al servizio dello Stato e, «pur avendo subìto ingiustizie – come ha rilevato Claudio Gioè, il bravissimo interprete di Totò Riina - ha scelto di perseguire il bene». Non si può negare che sia stata questa la percezione dei telespettatori. Ma il poliziotto Biagio Schirò, mai esistito, è stato presentato come memoria storica unica della saga dei Corleonesi e, in quanto tale, protagonista dell’azione di contrasto del male ed elemento ispiratore e trainante – se si fa eccezione del generale-prefetto Carlo Albero dalla Chiesa che dimostra di sapere il fatto suo - di investigatori e magistrati, da Boris Giuliano a Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, da Cesare Terranova e Gaetano Costa a Rocco Chinnici, e Borsellino e Falcone, fatti passare tutti quasi per pivelli Il vero Boris Giuliano Ma la realtà è stata ben diversa. «Mio marito non aveva bisogno, come appare nel lavoro televisivo, di un inesistente Schirò che lo spronasse a combattere la mafia» ha dichiarato Ines Maria Leotta, vedova del commissario Boris Giuliano ottenendo il plauso dei parenti di tanti altri servitori dello Stato assassinati proprio perché le loro indagini avevano imboccato le piste giuste. «Pur apprezzando il risalto dato alla figura di mio marito» - ha aggiunto – non posso fare a meno di rilevare che Boris era «molto diverso sin dai caratteri esteriori. Emerge dalla fiction un personaggio che segue lo stereotipo del siciliano: scuro, con folti baffi neri, che parla in dialetto e che usa il turpiloquio, un uomo dal temperamento passivo. Mio marito non era per nulla così. Non era un uomo di mezza età, era un uomo giovane, non parlava in dialetto stretto: non ci sarebbe stato nulla di male, ma semplicemente non era così. Inoltre non usava abitualmente il turpiloquio e non fumava. Ben altro, se si fosse voluto rendere giustizia alla sua figura, poteva essere raccontato nella fiction: si poteva fare riferimento all'isolamento in cui fu lasciato, o ai rapporti che presentava e che restavano lettera morta nei cassetti della Procura». «Anche se si tratta di una fiction e pertanto non necessariamente fedele alla realtà – ha concluso la signora Giuliano - penso che nel trattare un argomento così delicato andrebbe fatta una scelta : o utilizzare nomi e situazioni di pura fantasia, oppure, se si decidesse di riferirsi a personaggi realmente esistiti usando il loro nome - e che, come in questo caso, hanno perduto la vita per lo Stato - ci si dovrebbe attenere alla realtà dei fatti sottoponendo la sceneggiatura ai familiari». Il colmo dei colmi: la figura di Angelo Mangano In questo senso il colmo dei colmi dell’immaginazione che sfocia nella spudorata falsificazione di persone e fatti è stato raggiunto con la figura del commissario di pubblica sicurezza Angelo Mangano - quello con baffi e pizzetto, sempre in stretto contatto con Biagio Schirò - paradossalmente "accreditato" come l’autore della duplice cattura di Luciano Liggio, il capo degli altri capi: Totò Riina e Bernardo Provenzano. «Torno in tv per vestire i panni del commissario Angelo Mangano che arrestò la "primula rossa" Liggio» aveva infatti dichiarato in primavera l’attore Massimo Venturiello, dopo aver letto il copione. E se di questo si è convinto l’interprete del personaggio figuriamoci quale libertà di pensiero e di giudizio abbiano potuto avere i telespettatori che hanno dimenticato o non hanno mai conosciuto – o mai conosciuto correttamente - quelle vicende. Perché? Semplice: il commissario Angelo Mangano, non ebbe alcun merito nelle due operazioni: l’unico Liggio che riuscì ad arrestare non fu Luciano ma un suo fratello, menomato psichico. Camilleri: è un problema di fonti Quale il "peccato originale" che ha portato alla gravissima gaffe, se di semplice gaffe si tratta? Quello della scelta delle fonti da utilizzare. E in questo campo Andrea Camilleri, criticato perché non si è allineato con i conformisti, ha ragione da vendere. «Io – ha scritto in un articolo su "La Stampa" - personalmente ritengo che l’unica letteratura che tratti di mafia debba essere quella dei verbali di polizia e carabinieri e dei dispositivi di sentenze della magistratura. A parte i saggi degli studiosi, naturalmente». Ma anche – è doveroso aggiungere - libri scritti da giornalisti scupolosi che, oltre a quei documenti, hanno utilizzato i risultati dell’accurata inchiesta svolta al riguardo dalla Commissione parlamentare antimafia, dai quali le due operazioni emergono con estrema chiarezza e dovizia di particolari: il primo arresto di Luciano Liggio, avvenuto nel ’64 a Corleone, fu eseguito dai carabinieri agli ordini del tenente colonnello Ignazio Milillo, divenuto poi generale; il secondo, a Milano nel ’74, dalla Guardia di Finanza al comando del tenente colonnello Giovanni Vissicchio. Basta pensare, ma solo per fare qualche esempio, a "Mafia" di Gàbor Gellért (Rubbettino, 1978), a "Nel segno della mafia" di Marco Nese (Rizzoli, 1975), o al più recente "O mia bedda madonnina" di Goffredo Buccini e Peter Gomez (Rizzoli, 1993). «La figura di Angelo Mangano – hanno rilevato molto opportunamente questi ultimi a pagina 90 – è molto discussa. La Commissione parlamentare antimafia nelle sue relazioni, sia di maggioranza che di minoranza, è estremamente critica nei suoi confronti e lo accusa di "completo fallimento in tutte le operazioni" condotte». Quali, invece, le fonti di Stefano Bises, Domenico Starnone, e Claudio Fava, autori della sceneggiatura? Il libro dall’omonimo titolo (Mondadori,1993) di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, giornalisti de "La Repubblica" e, presumibilmente, quello di Pippo Fava, "Da Giuliano a Dalla Chiesa" pubblicato nel 1983 dalla cooperativa "Siciliani Editori" e ristampato l’anno dopo da "Editori Riuniti". Nel primo, a pagina 66, c’è scritto infatti che Liggio fu beccato quando nella stanza nella quale si nascondeva «fece irruzione il commissario Angelo Mangano»; nel secondo, a pagina 68, si legge che «dopo tre anni spesi con implacabile pazienza a seguirne le mosse, il commissario Mangano riuscì ad arrestare Luciano Liggio». Ma questa è la vecchia favola che lo stesso Mangano andò raccontando a destra e a manca, riportata da chi non ha voluto o non è stato in grado o non ha avuto il tempo di verificarne la veridicità. 1964: Milillo, non Mangano, cattura Liggio In verità Mangano giunse a Corleone nel novembre del ‘63, solo dopo che nel Palermitano Milillo aveva fatto terra bruciata attorno al superlatitante, sfuggito per un soffio alla cattura appena due mesi prima. Liggio si sente braccato ma, invece di allontanarsi il più possibile dalla zona per scampare all’incombente "pericolo" di finire nella rete tesa dai carabinieri, si trasferisce - guarda caso - proprio a Corleone, in un’abitazione poco distante dal Commissariato di Pubblica Sicurezza dove alloggiava il "superdetective" Mangano. Sulla vicenda esiste anche una breve ma lucidissima testimonianza di Pio La Torre che taglia la testa al toro. In occasione dell’arresto di Liggio – scrisse in un articolo pubblicato su "Quaderni Siciliani", n. 5-6 del 1974, quando cioè era membro della Commissione parlamentare antimafia - «emerge il ruolo del dottor Angelo Mangano, allora Commissario di PS spedito a Corleone dal capo della Polizia Angelo Vicari il 15 novembre 1963 per "arrestare" Liggio». E qui, le virgolette che fiancheggiano il verbo usato all’infinito esprimono, per dirla con Ungaretti, un’ironia che "illumina d’immenso". «Sta di fatto – precisò La Torre - che Liggio, che prima aveva vagato da Partinico a Palermo, soggiornando anche in varie cliniche sotto falso nome, decide di abitare stabilmente a Corleone e qui viene arrestato soltanto nel maggio 1964 dai Carabinieri agli ordini dell’allora colonnello Milillo il quale solo all’ultimo momento avverte il commissario Mangano. Questi, però, tenta di attribuirsi il merito dell’operazione, provocando tra l’altro una querela del colonnello Milillo, che si è conclusa nei giorni scorsi, dinanzi al Tribunale di Milano. Il generale Milillo ha ritirato la querela dopo che il dr. Mangano, ponendo fine alle sue fanfaronate, ha dato atto che l’operazione che condusse all’arresto di Liggio fu promossa dai carabinieri agli ordini di Milillo». Quando in Commissione antimafia Pio La Torre parlava di queste cose – mi confidò una volta Giuseppe Niccolai, altro membro della stessa – citava la cronaca de "L’Unità" dell’epoca. «Luciano Liggio è stato finalmente arrestato» aveva scritto Giorgio Frasca Polara sul quotidiano il 15 maggio 1964. «Il feroce bandito che per 19 anni ha seminato impunemente morte e terrore nel Palermitano è stato scovato in un’abitazione al centro di Corleone, dove aveva trovato compiacente ospitalità. Il clamore che la cattura di Liggio susciterà è paragonabile soltanto a quello che caratterizzò la fase finale delle operazioni contro la banda Giuliano. L’operazione è scattata alle 21,30; la casa nella quale Liggio si nascondeva è stata circondata da pattuglie di carabinieri armati sino ai denti. Alla porta ha bussato il tenente colonnello Milillo; alle sue spalle c’erano il capitano Ricci e il capitano Carlino, comandante della Tenenza di Corleone. Qualche istante dopo una donna ha aperto la porta. Quando ha visto i carabinieri è sbiancata in viso, ma prima che potesse riprendersi l’irruzione nella casa era avvenuta. In una stanza semibuia, disteso sul letto e ingrossato dal busto di gesso che lo difende dal morbo di Pott, c’era Luciano Liggio». Le fasi della cattura Quale, dunque, il vero ruolo di Angelo Mangano? Le fasi dettagliate del blitz e le prime battute tra Milillo e Liggio, raccolte dai testimoni oculari, le ricostruì anche Guido Gerosa per il settimanale "Epoca" : «Verso le 21,30 del 14 maggio 1964 l’abitazione è completamente circondata. Milillo ordina al riluttante Mangano di perquisire la cucina mentre lui irrompe al piano di sopra». Liggio è disteso su un lettino addossato al muro. Milillo non ha armi in pugno e, non potendo escludere che Liggio possa reagire sparando, cerca la pistola, ma il boss gli dice subito che è nel cassetto del comodino aggiungendo: «Colonnello, non era il caso che si preoccupasse: la pistola sempre a Lei l’avrei ceduta perché mi aveva combattuto con onore, ed era giusto che con onore vincesse». «In quella – precisò Gerosa - entra Mangano. Sbuffava per essere rimasto in cucina e quando ha visto che tutti i carabinieri si stavano precipitando con slancio quasi festoso verso la camera al primo piano, è entrato anche lui. Liggio, che sta finendo la sua frase sull’onore, vedendo Mangano ha un guizzo feroce nello sguardo e gli sibila in viso " … mentre quel buffone, pagliaccio era solamente capace di poter catturare deficienti come mio fratello". E conclude con una frase sibillina: "E gli è finita la missione in Sicilia!"». Pallido in volto, Mangano taglia la corda e si ferma sul pianerottolo situato tra la porta d’ingresso e la scala esterna. Giungono i militari con Liggio portato a spalla. Con una mossa fulminea, il commissario – scrive Marco Nese nel suo libro - «toglie la mano sinistra di Liggio dalla spalla di un maresciallo e la poggia sulla sua». Improvvisamente, appare un fotografo. «Ed ecco il flash lampeggiare sul gigante barbuto che sorregge il criminale d’eccezione. Diffusa attraverso l’agenzia Ansa, tra poche ore l’immagine campeggerà su tutti i giornali innestando la leggenda del titanico 007, catturatore di Liggio» alla quale hanno continuato ad abboccare in tanti anche se lo stesso "capo dei capi", subito dopo essere finito in cella ed in altre occasioni non esitò a raccontare senza mezzi termini la verità. Interessanti, al riguardo, le risposte alle domande dei giornalisti dei quotidiani "Il Giornale d’Italia" e "L’Avvenire" , publicate il 21 maggio 1976: «Da chi fu arrestato?». «Da Milillo. A Mangano, anziché fargli fare il funzionario di polizia dovevano portarlo in un ospedale ambulante» . «E’ vero che Mangano spostò un carabiniere per farsi fotografare al suo fianco?». «Si». «Quindi la fotografia non dimostra niente?». «Dimostra che voleva farsi fotografare» . D’altra parte, gli accertamenti avevavo già portato alla conclusione che a chiamare il paparazzo di giornata era stato proprio il diretto interessato: il commissario Angelo Mangano. «Io – spiegherà in seguito Milillo alla Commissione antimafia – quando vidi che il fotografo era già pronto mi ritirai» perché «avevamo disposizioni di evitare qualsiasi esibizionismo, di evitare fotografie, di evitare qualsiasi scalpore sulla stampa». E poi – preciserà in seguito - «mostrarsi in una foto mentre si aiutava Liggio a scendere sarebbe stato indecoroso per un ufficiale dei carabinieri». Mangano, invece, «si mise in posa accanto a Liggio, a colui, cioè, che poco tempo prima l’aveva offeso». L’altro imbroglio di Angelo Mangano Nel maggio del 1964, l’equivoco fu però provocato anche dal fatto che, Mangano, attuata l’operazione che servì ad ingannare l’opinione pubblica, ebbe il coraggio di perseverare nell’imbroglio presentando alla Questura di Palermo una "relazione di servizio" con la quale si attribuì l’esclusivo merito dell’operazione. La Questura – in buona o in malafede - preparò quindi un rapporto contenente gli elogi per il commissario e lo consegnò al Prefetto che, prendendolo per veritiero, lo firmò e lo inoltrò al Ministero dell’Interno. Ma, una volta chiariti i fatti, fu lo stesso ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani a consegnare a Milillo la taglia per l’operazione, mentre il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat gli conferì l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica, uno dei tanti attestati di benemerenza ricevuti sia prima che dopo la vicenda e persino in epoca successiva al pensionamento. Ma perché subito dopo l’arresto Liggio aveva chiamato Mangano «buffone, pagliaccio» e gli aveva rivolto altri epiteti offensivi? Sulla base dell’audizione di Milillo - del quale vennero riconosciuti sempre e da tutti il comportamento ineccepibile e l’assoluta credibilità - la Commissione antimafia rilevò che il boss lo aveva ingiuriato «non solo perché il funzionario aveva arrestato in paese un suo fratello deficiente, "ma un po’ perché sembrava deluso da certi atteggiamenti che si attendeva dal Mangano"». E fu da questa consapevolezza, suffragata da ulteriori ambiguità manifestate da Angelo Mangano, che nell’organismo parlamentare e nella pubblicistica dell’epoca si fece strada l’impressione che commissario fosse stato mandato in Sicilia non per arrestare Liggio ma, in qualche modo, per proteggerlo in quanto notoriamente potente portavoti della Democrazia Cristiana, in combutta con Vito Ciancimino. E Ciancimino, si sa, aveva referenti a Roma - in Parlamento e al Governo – con i quali curava i rapporti direttamente o tramite Salvo Lima e Giovanni Gioia, nomi che, guarda caso, compaiono anche in occasione del secondo arresto della "primula rossa". Le conclusioni dell’Antimafia «Certo è, comunque e in ogni caso – furono nel ‘76 le conclusioni della Commissione antimafia della sesta legislatuta della quale fece parte anche Cesare Terranova – che Mangano non ha agito si sua iniziativa, ma ha obbedito a ordini ricevuti»: si mosse «sempre operando agli ordini diretti del Capo della Polizia Vicari che continuò ad affidargli incarichi nella lotta contro la mafia nonostante gli insuccessi registrati». Più che legittima, dunque, davanti alla falsificazione dei fatti della fiction, la reazione di Giangranco Milillo, generale dei Carabinieri in congedo, figlio del generale Ignazio: nella lettera che si riporta integralmente, indirizzata al produttore de "Il capo dei capi" Pietro Valsecchi, reclama il «trionfo della verità» e fa presente che «i soldi e il successo da una fiction si ottengono anche dicendo la verità». Una verità, forse scomoda in certi ambienti, che di tanto in tanto viene messa in discussione attraverso "rivelazioni" che, a distanza di più di quarant’anni, fanno pensare a tentativi – tanto subdoli quanto inutili - di "depistaggio" a scoppio ritardato in funzione di chissà quale "giusta causa". Tanto più che sono somministrati col contagocce da soggetti che non hanno il coraggio di venire allo scoperto con nome e cognome. Che siano degli "incappucciati" capaci di agire soltanto dietro le quinte? Chi lo sa! Oppure si tratta di una manovra analoga a quella diretta alla "rivalutazione" – anche da parte dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi - di Bruno Contrada anche dopo il verdetto della Cassasione le cui motivazioni sono state espresse nei giorni scorsi? 1974: Vissicchio, non Mangano, cattura Liggio E non è detto che le polemiche finiscano qua, perché anche la narrazione del secondo arresto di Luciano Liggio, avvenuto dieci anni dopo a Milano, è stata falsificata di sana pianta. Nella fiction, Mangano piomba in un albergo e lo trova in compagnia di una bella bionda. In realtà la cattuta del superboss avvenne in un appartamento di Via Ripamonti, condiviso con la compagna ed il figlio. All’epoca, Mangano operava in tutt’altri lidi: a mettergli le manette fu il colonnello della Guardia di Finanza Giovanni Vissicchio, arrivato al dunque – a quanto pare a seguito di una soffiata alla quale non sarebbero stati estranei boss avversari – nel corso di indagini sui sequestri di persona attuati al Nord da "uomini del disonore" pilotati dai Corleonesi. Qualche tempo dopo, l’ufficiale ebbe un incontro a Roma con il comandante generale del Corpo, Raffaele Giudice, che nel 1981 risulterà iscritto alla P2. In seguito, Vissicchio, nel corso di un processo, ebbe modo di riferire di quel colloquio nel corso di un processo: «"Lei, mi disse, è il colonnello che ha arrestato Liggio? Ebbene, pensi a fare il finanziere e non il carabiniere". Questa frase mi colpì molto. Mi aspettavo delle congratulazioni. Invece …». Interessanti si rivelarono anche i particolari sulla nomina di Giudice al vertice della Guardia di Finanza. «So per certo – disse Vissicchio - che negli ambienti militari da tempo il nome di Giudice era sulla bocca di tutti: seppi che i suoi sostenitori erano Salvo Lima e Giovanni Gioia», notoriamente legati a Vito Ciancimino e sicuramente al corrente dei suoi già documentati rapporti con i Corleonesi. Io, invece, a Milano ero guardato in un certo modo perché «mi davo troppo da fare». Vissicchio troppo zelante? Trasferito! Due anni dopo, nel 1976, Vissicchio fu trasferito senza alcun giustificabile motivo dal Nucleo di Polizia tributaria del capoluogo lombardo a quello di Venezia. Quale era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso? «Stavo svolgendo – spiegò il colonnello ai magistrati – indagini su alcuni conti bancari in Svizzera con la polizia elvetica che mi mise a disposizione un elenco di personaggi importanti. Tra di essi c’era anche la signora Giudice che fu pedinata a Lugano mentre entrava in un istituto di credito. Lavoravamo in stretto contatto con il giudice di Milano Giuliano Turone. Sta di fatto che fui rimosso dall’incarico e trasferito». Poi un’altra inquietante affermazione: «Sa, signor giudice, io e il mio gruppo eravamo riusciti a ricollegare le trame della mafia dei colletti bianchi all’estero, attraverso le loro finanziarie e società fittizie. A quel tempo, infatti il giudice Turone mi aveva incaricato di interessarmi del riciclaggio del denaro sporco proveniente dai sequestri di persona che a quel tempo nel nostro Paese erano facili come rubare una bicicletta. Comunque, anche quelle indagini furono interrotte». Per fortuna, il colonnello, grazie a quelle indagini era già riuscito a far finire in galera Luciano Liggio, che ci rimase fino alla morte. Il tesoro del generale Raffaele Giudice Un passo indietro: l’ anno dopo alla cattura di Liggio , la moglie del generale Raffaele Giudice deposita presso l’Unione Banche Svizzere ben centotrentamila dollari, acquista a Lampedusa un terreno sul quale fa costruire una villa e compra obbligazioni per ottanta milioni. Nei successivi quattro anni il patrimonio familiare si arricchisce di un cabinato a motore di sei metri e mezzo, di una decina di libretti al portatore per somme tra i venti ed i venticinque milioni, di una notevole quantità di argenteria e preziosi tenuti nascosti in cassette di sicurezza, di cinquanta milioni in Bot, di un terreno, due ville e due appartamenti a Palermo e di sei appartamenti in pieno centro a Roma. Quando nel 1982 il generale viene condannato a sette anni di reclusione, lo stipendio medio di un ufficiale del suo livello è di circa trenta milioni l’anno. Ma anche su questo gli autori della fiction hanno seguito il motto "nènti sàcciu, nènti dìcu e nènti vògghiu sapìri". E niente hanno potuto vedere, sentire e sapere i telespettatori che non hanno mai conosciuto i fatti o li hanno dimenticati. Per loro ha fatto tutto il commissario col pizzetto, in collaborazione con Biagio Schirò. «La fiction è fiction» si sente ancora dire. Ma non è proprio così perché le omissioni sospette e le evidenti falsificazioni , se da un canto hanno compromesso il pieno successo di una realizzazione televisiva tecnicamente ben fatta, dall’altro hanno disinformato l’opinione pubblica ed arrecato un grave danno alla memoria di fedeli servitori dello Stato che - dopo aver fatto il loro dovere in prima con competenza e coraggio, agendo ad oltranza e senza guardare in faccia nessuno - non sono stati ancora difesi dagli alti vertici dei Corpi di appartenenza. ENZO GUIDOTTO Presidente "Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso" * * * * * * * * * * TGCOM 29 novembre 2007 Joint venture tra MEDUSA e TAODUE : insieme per il cinema e la fiction Accordo in casa Mediaset per una joint-venture in cui confluiranno Medusa Film e Taodue. L'operazione, il cui accordo è stato firmato nella giornata di giovedì, prenderà la forma della costituzione di una nuova società con un patrimonio netto di circa 370 mln di euro in cui confluiranno il 100% di Medusa e Taodue. Con questa operazione il gruppo del Biscione compie un ulteriore passo in avanti nel mondo del contenuti. Un cammino questo avviato con l'ingresso di Mediaset nel consorzio che ha rilevato Endemol, il gruppo produttore del "Grande Fratello", padre di tutti i reality, e proseguito con la successiva acquisizione del Gruppo Medusa. Con l'ingresso di Taodue in Mediaset, il gruppo diventa leader anche in un'area in continua espansione nazionale ed internazionale come la fiction televisiva di qualità. Grazie a questa operazione, Mediaset intende dare vita ad una nuova realtà produttiva "che possa cogliere le prospettive di crescita del mercato della produzione di contenuti per la televisione e il cinema, sia in Italia che all'estero", si legge in una nota del gruppo. Questa nuova realtà avrà il compito di "sviluppare e diffondere i prodotti italiani anche sui mercati esteri". Il binomio Medusa Film e Taodue garantirà a Mediaset una vasta copertura sia per quanto riguarda l'area cinematografica che quella della fiction televisiva. Medusa Film, infatti, è ai vertici della produzione e della distribuzione di film italiani ed internazionali, nella gestione di sale cinematografiche e nell'home entertainment. Taodue, invece, fondata da Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt (nella foto) nel 1991, ha iniziato a produrre fiction alla fine degli anni '90 e conta tra le sue produzioni "La uno bianca", "Ultimo", "Distretto di polizia", "Paolo Borsellino", "Karol, un uomo diventato Papa", "Nassirya", "Maria Montessori", nonchè il discussimo "Il capo dei capi" * * * * * * * * * * Dr. Gianfranco Milillo Generale (r) dei Carabinieri Via Carmine Coppola,28 84043 Agropoli (Salerno) 0974 821279 - 335 7907475 e-mail gianfranco.milillo@virgilio.it Signor Pietro Valsecchi, desidero esprimere i miei compiacimenti per la realizzazione della fiction "Il capo dei capi" e di come avete saputo romanzare, in maniera del tutto personale tra fantasia e realtà, uno spaccato della nostra storia. Peccato però che non siete stati del tutto fedeli nella descrizione di quei fatti, di quei personaggi, siano essi protagonisti mafiosi, siano essi protagonisti che investigarono e combatterono la mafia. In questi casi credo che l’autore, il registra, il produttore o chiunque altro intenda riportare alla memoria avvenimenti del genere, ha il sacro santo dovere di rapportare fedelmente certi episodi, in quanto storia, con il supporto di documenti, atti di polizia giudiziaria e testimonianze inconfutabili dei protagonisti di quel tempo, degli autori materiali di quegli episodi. Mi spiego meglio. Vi siete ben documentati sul ruolo e sulla figura di quei personaggi che avete propinato a milioni di italiani che non hanno vissuto quel periodo, quelle situazioni, inculcandogli così nozioni errate, travisando quindi la verità storica? Non credo proprio. Così come dubito che lo stesso RIINA (se interpellato ) avrebbe avallato alcuni episodi fondamentali di cui è stata distorta la verità in quanto, da uomo d’onore quale egli è ( ritengo che in questo sarete d’accordo con me), vi avrebbe dato qualche dritta senza farvi cadere in non banali errori. Se aveste approfondito meglio la vita "della primula di Corleone", avreste scoperto che Luciano Liggio o meglio Leggio" è stato arrestato dai militari dell’Arma dei Carabinieri del Gruppo Esterno di Palermo al comando dell’allora Tenente Colonnello Ignazio MILILLO che, per "imposizione romana e motivi di diplomazia", permise l’ "affiancamento", nella parte finale, dell’ allora commissario di Pubblica Sicurezza dottor Angelo Mangano, a sua volta coadiuvato da altri due o tre poliziotti. Sicuramente le vostre fonti non saranno state solo quelle del Ministero dell’Interno Dipartimento della Polizia di Stato ( almeno così mi auguro ) ma anche, quelle dell’Arma dei Carabinieri o, meglio ancora, quelle delle Procure della Repubblica e dei Tribunali di Palermo, Bari, Firenze, Nuoro etc., con la lettura dei rapporti giudiziari ivi depositati, molto chiari,dettagliati e firmati dagli operatori, con le deposizioni degli interessati. Avreste appreso che in quegli anni il Governo aveva messo anche una taglia sul Liggio e che questa fu consegnata dal Ministro degli Interni tramite il Prefetto di Palermo, Ecc.Ravalli, al comandante di quella brillante operazione. Al MILILLO e agli uomini dell’ARMA, per l’appunto. Sarebbe stato sufficiente rivedere qualche pezzo dei cinegiornali e telegiornali di allora, riascoltare e rileggere le polemiche interviste. Bastava che vi foste soffermati a leggere meglio questa documentazione, che aveste rivisto l’intervista televisiva di Enzo Biagi ( da poco scomparso ), fatta al "Capo dei Capi" di allora (Luciano Liggio), trasmessa dalla emittente di stato che, benché detenuto, a specifica domanda, rispondeva che era stato arrestato dal MILILLO. Se aveste consultato gli atti pubblicati dalle Commissioni Parlamentari Antimafia avreste conosciuto meglio figure (come il Mangano) di quella storia che avete trasformato "inspiegabilmente ed ingiustamente" in sceriffi ed eroi. Non avreste errato nella consecutio temporum degli avvenimenti come ad esempio Mangano che fate giungere a Corleone nel 58 ( zummata sul calendario affisso alla parete del bar); Mangano, non fu mai titolare del commissariato di P.S. a Corleone e non era ancora in Sicilia quando esplose la Giulietta a Ciaculli; quei militari che discutevano attorno all’autovettura, prima della esplosione, non erano sempliciotti carabinieri da barzelletta ma EROI, investigatori seri che, come il Ten. Mario MALAUSA (non uso a calzare il berretto fino ad appoggiarlo sulle orecchie a sventola) e i suoi uomini, alle dipendenze del MILILLO, hanno combattuto la mafia fino allo estremo sacrificio. Concludo, per non tediarvi, inviando la copia del frontespizio di una pubblicazione, commissionata dal Comune di Sambuca di Sicilia (AG) e distribuita in occasione della commemorazione della morte del vero protagonista dell’arresto di Liggio e contestuale intitolazione dell’Aula Consiliare di quel Comune: "Un Uomo,una Fede,una Storia" dove all’interno vi si può leggere qualche notizia di interesse (che ad ogni buon fine allego in copia: uno stralcio del verbale delle dichiarazioni rese e firmate, subito dopo l’arresto, da Luciano Liggio; la Cittadinanza Onoraria del Comune di Corleone concessa al MILILLO e non al vostro Mangano; la lettera di nomina al MILILLO quale componente del Consiglio Direttivo del C.I.D.M.A. della città di Corleone e non al Mangano che non ha "combattuto la mafia sino all’estrema conseguenza"; parti di rassegne stampa, copie di telegrammi pervenuti al Comando Generale dell’Arma in seguito all’arresto di Liggio; etc.) in modo da poter chiedere almeno scusa a coloro che non ci sono più e che sono stati offesi, dileggiati e denigrati ( mi auguro in buona fede ) sminuendo il loro effettivo ruolo in quelle vicende e che hanno dato la propria vita, certamente, non per permettere a voi ed al vostro staff di poter dire (artatamente?) menzogne, bugie, falsità, inventandosi personaggi come il poliziotto Biagio ( che ben venga ) ma che sarebbe stato più logico fargli vestire i panni del carabiniere, almeno. Oggi, voi, avete offeso una Istituzione qual’è la BENEMERITA, mortificando quei suoi appartenenti che sono "usi obbedir tacendo e tacendo morir" per far recuperare "credibilità"ad una altra Istituzione, che, con l’arrivo del Mangano, non ha avuto alcun ruolo di positivo rilievo in quella vicenda, e mitizzato un tizio, tale dott. Angelo Mangano, che è stato sospettato più volte, anche dalla stessa stampa e dalla Commissione Parlamentare Antimafia, di essere stato inviato in Sicilia non per catturare il Liggio, ma per assicurarne la latitanza o, quanto meno, ritardarne la cattura. Vi siete chiesti perché Liggio, che doveva essere terrorizzato dall’idea di essere catturato dal superpoliziotto, si era trasferito, guarda caso, a Corleone, dopo alcuni giorni l’arrivo del segugio Mangano il quale aveva preso alloggio anche in Corleone? Non eravate presenti quella sera, ma i testimoni chiarirono bene come il mefistofelico Mangano, , con una mossa prepotente e fulminea scansò un maresciallo dei carabinieri ponendosi a fianco del Liggio, facendosi così immortalare dalla macchina fotografica e millantare, nel tempo, con quattro suoi sottoposti, a fronte di uno schieramento di uomini e mezzi dell’Arma, il mitico arresto ( leggasi verbale di arresto presso la sede del Comando Arma firmato da una moltitudine di carabinieri partecipanti e controfirmato dai dottori Angelo Mangano e Nicola Ciocia, più qualche altra unità, unici appartenenti della Pubblica Sicurezza presenti). Ma la storia, quella vera, e non quella presentata da voi, ha dato nel tempo e nelle giuste sedi ragione agli onesti e fra questi non c’era il vostro Mangano, che, di contro,come risulta dagli atti del «Processo Angelo Mangano - Frank Coppola» detto "tre dita," celebratosi presso il Tribunale di Firenze, si fece consegnare i primi diciottomilioni dei cinquanta richiesti per manomettere le bobine delle intercettazioni telefoniche ( Ecce Homo ). Chiami Santoro e Ruotolo che, unitamente al MILILLO, dopo una trasmissione di Samarcanda, in occasione del decesso del Liggio, furono querelati, dal Mangano. Fu avviata una causa presso il tribunale di Roma terminata "per decorrenza dei termini" dove il Mangano, in sede di ondivaghe deposizione, se ne è uscito, anche in questa occasione, poco onorevolmente. In quella circostanza, il tribunale, non si è voluto soffermare su alcuni eventi bui per non creare frizioni fra le Istituzioni, tenuto conto che sarebbero potute uscire delle verità imbarazzanti anche su uomini che erano ancora in vita e che ricoprivano o avevano ricoperto altissime cariche dello Stato ed Istituzionali. Ma adesso basta! Ormai non si può essere più tolleranti e comprensivi, perché un domani, potrebbe ripetersi. Qualche altro autore o scrittore disinformato e superficiale potrebbe cadere nel vostro stesso errore, avvalendosi di "inaffidabili consulenze di parte" e trasmettere, in particolare alle giovani generazioni, con questi mezzi di comunicazione, così fortemente condizionanti ed incisivi, una alterazione della verità storica, facendo passare, tra l’altro, disonesti funzionari in mitici eroi. Credetemi ciò non è affatto onesto. Ovviamente avrà compreso che il MILILLO in questione è mio padre e che se voi lo riterrete, potremmo rivedere, insieme, quella parte del vostro inesatto racconto, confrontando la documentazione esatta in mio possesso con la vostra incompleta, approfondendo vieppiù, la figura del Mangano e la sua "sporca carriera di un Questore" ( dal settimanale ABC allegato ), dando, sempre insieme, contestualmente e a mò di romanzo, come sapete fare egregiamente voi, anche qualche storia " liberamente ispirata a fatti realmente accaduti, di personaggi, di singoli eventi narrati, a nomi e dialoghi frutto dell’immaginazione ( non certo l’episodio riferito alle catture di Liggio ) e della libera espressione artistica", a qualche risposta non data (V’è stata qualche relazione tra la storia del bandito Salvatore Giuliano e il killer Luciano Liggio? Chi lo copriva durante la sua latitanza? Perchè il Capo della Polizia Angelo Vicari, già giovanissimo Prefetto di Palermo ed amico del Barone Valenti di Corleone - le cui terre erano controllate dal campiere Luciano Liggio - mandò il suo uomo di fiducia e super poliziotto in Sicilia quattro mesi prima della cattura di Liggio? ). Fra gli autori delle indagini che portarono all’arresto del Liggio vi sono degli ufficiali e sottoufficiali dei carabinieri ( verbalizzanti ), ora in pensione, ma vivi e vegeti, che potranno avvalorare quanto da me fin qui descritto. Nel salutarvi, e nel considerarmi disponibile affinché per il futuro non possiate ricadere in simili gravi errori ( sempre che non vi leghi qualche vincolo particolare con qualche personaggio interessato a queste vicende ), vi allego un modesto campionario di fotocopie di articoli di stampa, dell’epoca ed attuali, per una migliore conoscenza dei fatti, che si commentano da soli. Dimenticavo che ciò che ho scritto è ben documentato e pertanto se qualcuno si dovesse ritenere leso, sono disponibile a chiarirlo in ogni sede. Infine, avete reiterato la menzogna, attribuendo anche il secondo arresto di Liggio, in Milano, al leggendario Mangano, in quanto, pur trovandosi a Milano il Mangano, non arresta il Liggio perché arrestato dalla Guardia di Finanza. Come si spiega che anche in questa circostanza Mangano si trova in zona di operazioni di polizia giudiziaria, poco tempo prima che qualche altro sta per arrestare Liggio? Strane coincidenze per lo sfortunato Mangano che, comunque, viene sempre premiato e promosso per i suoi " brillanti risultati ". Non si può offendere,in questo modo, la memoria dei veri uomini ed onesti servitori dello Stato, che hanno combattuto in guerra, contro il banditismo di Salvatore Giuliano, la camorra e la mafia, per assicurare libertà e benessere ai cittadini di questa nostra Italia e permettere - vostro tramite - di mitizzare uno come Mangano, che fu condannato per diserzione in tempo di guerra; che dichiarava di aver fatto la guerra partigiana a Roma girando con un certificato che dimostrava la sua fede nella Resistenza, mentre ci sono delle lettere del suo periodo di detenzione, in cui giura di essere un fascista di provata fede per essere liberato; che fu condannato ad un anno e quattro mesi per falso dal tribunale di Nuoro; e tanti etc., e renderlo un " eroe" quasi una leggenda. Mi fermo, certo che avrete ben compreso che, questa mia, non vuole essere una "battaglia" sui meriti tra Polizia e Carabinieri perché entrambi, hanno lavorato, lavorano e lavoreranno, per il senso di Giustizia. I soldi ed il successo da una fiction, si ottengono anche dicendo la verità. Gen.Gianfranco Milillo * * * * * * * * * * * SALVATORE BORSELLINO "Il capo dei capi" ? E perché non "La bestia delle bestie" ? Chi mescola così realtà e finzione disinforma chi non sa e diseduca i giovani Mi trovo piuttosto a disagio, nel commentare l’ottimo e documentatissimo articolo del professor Enzo Guidotto sulla fiction "Il capo dei capi" andato di recente in onda su Canale 5, di trovarmi sulla stessa linea di Clemente Mastella sia per non averlo visto sia per condividere con lui un giudizio negativo sulla fiction stessa. Per il fatto di non averlo visto la circostanza non è casuale. Dal 1992 ad oggi mi sono infatti rifiutato di vedere un qualsiasi prodotto televisivo sulla mafia, sulle stragi del 1992 e su tutti gli avvenimenti seguenti o precedenti che non fosse di pura documentazione. Ritengo infatti che prodotti del genere, che mescolano finzione e realtà, sottoposti ad una massa di spettatori tra i quali una percentuale non indifferente non è sufficientemente ed autonomamente informata dei fatti, possano spesso causare disinformazione dovuta al fatto che per questa fascia di persone, di entità non assolutamente trascurabile, non risulta facile capire dove finisce la realtà e comincia la finzione e viceversa. La cosa peggiora ovviamente quando, come in questo caso, già nel titolo che non è, come avrebbe dovuto essere, "La bestia delle bestie" ma "Il capo dei capi" si comincia già a preparare quella che negli spettatori meno preparati, più influenzabili o più soggetti ad un certo tipo di stimoli, potrebbe essere la mitizzazione del personaggio rappresentato. Il quale soprattutto nei giovani ancora in formazione di certi paesi siciliani, come Corleone e San Giuseppe Jato, dove la mafia ha imperato per anni e spesso impera tuttora può assumere l’aspetto di un eroe negativo ma pur sempre un eroe. E visto l’ascendente che il potere esercita su tante persone, in quelle regioni nei quali lo Stato ha da anni abdicato alla propria funzione, lasciando spesso alla criminalità mafiosa perfino il controllo del territorio, o dove e’ difficile discernere un confine netto tra mafia e Stato, ne può anche condizionare le scelte future. Ancora peggiore è il caso in cui - come apprendo da quanto evidenziato dal professor Guidotto e come inoppugnabilmente specificato dalla lettera del Generale Gianfranco Milillo - si mistifica addirittura la verità rispetto a personaggi reali attribuendo la cattura di Luciano Liggio all’allora Commissario di Pubblica Sicurezza Angelo Mangano piuttosto che all’allora Tenente Colonnello Ignazio Milillo. Ma in questo caso, ed e’ ancora più grave perché si tratta di giornalisti, la disinformazione risale al libro a cui la fiction si è ispirata, cioè "Il capo dei capi: vita e carriera criminale di Totò Riina". Lo stesso metro vale per la creazione di un personaggio totalmente di fantasia, come Biagio Schirò, mentre si sarebbe potuto parlare di un personaggio reale, come il Capitano Ultimo, ma questo avrebbe comportato la necessità di parlare anche del ruolo ambiguo del Servizi, del Colonnello Mori e dello scellerato patto di non belligeranza tra mafia e Stato che prende il via dalla presentazione del papello di Toto’ Riina e del quale per saperne di più siamo ancora in attesa di un dissiparsi delle nebbie che ottenebrano ancora i ricordi dell’allora ministro Mancino. O che chi ha in mano l’agenda rossa di Paolo Borsellino, piuttosto che adoperarla per ricattare i vertici dello Stato Italiano per la concessione di una improbabile grazia, si decida a farne pubblicare qualche pagina su qualche settimanale, magari come Panorama che ha dimostrato negli ultimi anni di essere così bene informato sui fatti più oscuri della storia di questo nostro disgraziato paese. Stendiamo un velo pietoso sulla mancanza, nella fiction, a qualsiasi riferimento ai ruoli che lo stalliere Mangano, Marcello Dell’Utri, la nascita di Forza Italia, avrebbero potuto avere in questa storia: sarebbe troppo pretendere che chi paga la produzione possa anche autoflagellarsi proprio in una fiction che serve a distogliere l’attenzione dai problemi reali tramutando la storia reale in una specie di film western. In quanto alla comunanza di vedute con il ministro Mastella la cosa si ferma qui: lui si occupa di censure e tenta di censurare il censurabile, sia "La vita rubata" che "Il capo dei capi"; per il resto la sua competenza in fatto di Grazia e di Indulto non e’ sicuramente alla pari della totale ignoranza di cui fa sfoggio nel campo della Giustizia. Salvatore Borsellino * * * * * * * * * RITA BORSELLINO Il dovere degli sceneggiatori Il mio giudizio nei confronti di queste fiction è ancora una volta negativo. Il messaggio che passa è ogni volta devastante. Chi assiste, non sempre è preparato. Si badi bene: non dico che si tratta di un pubblico ignorante , ci mancherebbe, ma di certo non tutti conoscono i fatti, le dinamiche. Quel tipo di mafia che si racconta non è più cronaca, ma non ancora storia e il pubblico, la gente, a parer mio non ha gli strumenti necessari per capire. Per questo è altissimo il rischio di subire il fascino dei personaggi rappresentati. Nel caso de «Il capo dei capi», anche grazie alla bravura dell’attore che ha interpretato Riina, ne è uscito un personaggio appetibile, che può essere mitizzato. Questi sono criminali e gli sceneggiatori hanno l’obbligo di mettere in grande evidenza la loro doppia personalità. Nelle fiction, se si vogliono fare, bisogna aggiungere il ruolo della società civile che si batte contro il pizzo, contro l’omertà. Possibile che nel film su Riina l’unico personaggio positivo, quel giovane poliziotto, era inventato?. Se si vuole fare un discorso serio, se si vuole fare informazione, prima di trasmettere questi film il pubblico andrebbe sensibilizzato raccontando la storia vera, spiegando come stanno i fatti. Dubito che riusciranno mai a farlo. O che vogliano veramente farlo. Rita Borsellino (Dichiarazioni raccolte da Nicoletta Brambilla e pubblicate su "Sorrisi e Canzoni" 12/18.I.2008) "Nella fiction, tutti gli uomini dello Stato vittime della mafia sono solo figure di secondo piano" Intervista ad Alessandra Verzera per "Strettoindispensabile" D: "Signora Borsellino, ci risiamo: ancora una fiction sui due giudici palermitani di cui uno, Paolo Borsellino, era suo fratello: lei ha visto "Il Capo dei Capi"?" R: "Ne ho visto solo una parte. Ma questa fiction non è sui due giudici e il problema sta proprio lì. Sta nel fatto che la fiction è sul "Capo dei capi", Riina, ed è una serie in cui i due giudici come tutti gli altri uomini dello Stato vittime della mafia sono solo figure di secondo piano". D:" Osservando Totò Riina da vicino, sia pure attraverso il filtro di una rappresentazione televisiva, cosa ha provato a quindici anni dalle stragi ordinate da quell’uomo?" R: "Ho notato che l’attore che interpretava Riina era molto bravo. Questo paradossalmente ha contribuito a dare spessore al boss, a metterlo in primo piano attenuando gli aspetti negativi della sua personalità, la sua crudeltà. E questo è inquietante perché penso che chi non è culturalmente attrezzato rischia di mitizzare questa figura, di vedere in lui il protagonista vincente, l’uomo che si è fatto da solo e che ha lottato contro tutti e tutto pur di emergere." D: " Pensa che la figura di suo fratello, ma anche quella del suo amico e collega Giovanni Falcone sia stata messa nella giusta luce?" R: "No. Le personalità e le storie individuali degli uomini di Stato nella fiction sono solo sfiorate." D: " Giudica "pericolosa" la messa in onda di una fiction in cui si magnifica la figura di un boss di cosa nostra? Ritiene che possa dare luogo a fenomeni di emulazione da parte dei giovani?" R: "Il termine che lei usa nella sua domanda è già una risposta. Magnificare l’immagine di un boss può essere solo pericoloso." * * * * * * * * * GIOVANNI IMPASTATO Le fiction devono essere costruttive La lotta alla mafia la fanno le figure positive. Sono queste le figure che devono emergere. Girando per le scuole, dove spesso vado per tenere dei dibattiti, era diffusa la convizione, dopo la messa in onda de "Il capo dei capi", che Riina fosse un uomo coraggioso e che lo Stato non si comporta tanto meglio dei mafiosi. Ecco, questo concetto non può, non deve passare tra i giovani. Non perché sono parte in causa, ma film come "I cento passi", o anche capolavori come "Schindler’s List" o "Ganghi", sono veramente costruttivi. Giovanni Impastato (Dichiarazioni raccolte da Nicoletta Brambilla e pubblicate su "Sorrisi e Canzoni" 12/18.I.2008) * * * * * * * * SERGIO CASSARA’ "Mente pensante" della lotta alla mafia? Biagio Schirò, un personaggio inventato. Chi ricorda più Roberto Antiochia? Aveva 23 anni e morì assieme a mio fratello Ninni. I programmi televisivi fatti bene, documentati, circostanziati, interessanti, sono purtroppo da ricercare con il "lanternino". Per realizzarli ci vorrebbe una "rivoluzione culturale". Accogliendo il gentile invito del professor Enzo Guidotto, esprimerò alcune mie personali idee in merito alla serie televisiva "Il capo dei capi", andata in onda ultimamente. Premetto innanzi tutto che ho seguito solo in parte la serie; tuttavia, per quello che riguarda la figura dei tanti Servitori dello Stato caduti nella terribile Guerra alla mafia, e quindi anche quella di mio fratello Ninni, non posso che associarmi nel condividere il rammarico ed il dispiacere di chi, come me, ha dovuto subire l’incolmabile perdita di un proprio caro ed ha dolorosamente constatato che "quasi .. quasi" il fondamentale "motivo ispiratore", la più fervida e rilevante "mente pensante" tra gli investigatori dello Stato nella lotta alla mafia sia stato l’ispettore Biagio Schirò! Si, … posso anche capire i motivi che hanno guidato chi ha sceneggiato la serie che ha probabilmente voluto in questo modo dare un unico filo conduttore alla "storia" rappresentata, ma … penso che, avendo – tra l'altro – l'ambizione di volere mettere in scena anche un documentario si sia in questo modo travisata eccessivamente la realtà e, soprattutto, non sia stata data una corretta e doverosa Informazione al pubblico televisivo. Forse - volendo prendere del buono nella criticabile scelta adottata di fare convivere nella storia personaggi veri ed inventati - in questa rappresentazione televisiva sarebbe stato possibile fare emergere che nella figura inventata dell’ispettore Schirò confluivano idealmente le grandissime doti di intelligenza, capacità investigativa, caparbietà, coraggio, lealtà, umanità; la Voglia di affermare Verità, Giustizia, Legalità; la voglia di migliorare la qualità di vita in questa terribile città che è stata ed è, purtroppo ancora, Palermo; doti che tutti i nostri grandi eroi e martiri di mafia hanno dimostrato con il loro estremo impegno e sacrificio! A questo proposito è doveroso, per me, ricordare la figura del poliziotto Roberto Antiochia il quale dopo l’uccisione a Palermo del commissario Beppe Montana il 28 luglio 1985, durante il suo periodo di ferie!, è tornato da Roma (dove prestava servizio, ndr) per stare vicino al suo capo Ninni Cassarà e per difenderlo! Eravamo infatti ai tempi delle "scorte volontarie", mio fratello non aveva alcun servizio di scorta o tutela ed i suoi "ragazzi" lo proteggevano come potevano! Roberto è morto con mio fratello il 6 agosto 1985 sotto i 200 e più colpi di Kalashnikov sparati contro di loro; Roberto aveva 23 anni, Ninni 38. In merito ad altri fatti rappresentai nella serie televisiva, non mi soffermo sia perché, come premesso non l’ho seguita integralmente, sia perché – soprattutto – ritengo che la "nostra" "televisione" oggi sia diventata lo strumento principale attraverso il quale si tende a fare regredire l’essere umano verso uno stato di inebetimento via via crescente! I programmi televisivi fatti bene, documentati, circostanziati, interessanti, sono purtroppo da ricercare con il "lanternino" si diceva una volta, adesso direi con un potente "motore di ricerca"! Quindi, che senso ha ricercare nei programmi televisivi qualcosa che è al di fuori degli obiettivi della "Televisione"? Sono convinto che solo una "rivoluzione" potrebbe portare la "nostra" "povera!" televisione a concepire prodotti di qualità e dunque veramente utili per i cittadini. A questo proposito, una delle iniziative che secondo me può definirsi davvero "rivoluzionaria" per la nostra "cultura" meridionale è quella dei giovani di "Addio Pizzo". Ritengo che partorire una simile idea per il popolo palermitano sia stata proprio una innovazione rivoluzionaria e penso che ognuno di noi debba comunque andare avanti, …. gettare il seme della legalità e della giustizia e concimarlo in ogni modo, affinché possa germogliare e crescere "LIBERAMENTE". Sergio Cassarà * * * * * * * * * ARNALDO GRILLI Generale dei Carabinieri, già vice comandante dell’Arma «Necessità di una rivoluzione culturale a partecipazione totale» Per il superamento del fenomeno mafioso occorre una «tensione morale delle coscienze, attraverso una rivoluzione culturale a partecipazione totale. Parlare di rivoluzione culturale non significa condurre una lotta, a sua volta impostata sulla violenza e sul sangue: significa costruire una società attraverso la partecipazione convinta anche nelle piccole cose (consigli scolastici, di quartiere, delle comunità religiose, eccetera) al fine di poter comprendere l’importanza delle grandi cose: il sistema statuale». Infatti, «le misure di polizia ed i provvedimenti legislativi parziali possono servire e servono a combattere e, magari, vincere le battaglie contro la malavita di gruppo: la vittoria della guerra, però, richiede molto di più; richiede interventi capaci di disintegrare i gruppi nella loro consistenza e di avviare tutti sulla strada che conduce alla coscienza e alla responsabilità sociale». "La criminalità mafiosa nella società postindustriale", Laurus Robuffo, 1984

COMMENTA