lectio magistralis di PIER ALDO ROVATTI
Il pronome “io”, che Gadda una volta definì come il più osceno dei pronomi, domina ormai da cima a fondo la nostra scena culturale. Più che la sua "oscenità" colpisce la sua ossessività: è un tamburo che batte di continuo. Enunciamo, annunciamo, imponiamo il nostro “io” come se non potessimo trattenerci. Piantato in cima alla frase, senza sottintenderlo o posporlo a una seconda o terza persona singolare, meno ancora a un “noi” o un “voi” o un “loro”. È la triste vicenda dell’entropia sociale che stiamo vivendo, quella metamorfosi che ci ha trasformati in “egosauri”, poco o tanto ma nessuno escluso completamente. Quali siano gli effetti, lo misuriamo nel progressivo silenziamento dell’ascolto dell’altro e nella crescente incapacità di dare corpo e sostanza al pronome “noi”. Se questa ossessione corrisponda a un disturbo psichico, o addirittura psichiatrico, ecco l’espediente con cui trucchiamo le nostre carte, esonerandoci dall’esserne responsabili.
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